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Dal pacifismo integrale alla guerra contro Hitler, la lezione di Simone Weil: “La non-violenza è buona solo se è efficace”

L’aspetto forse più affliggente del dibattito sulla guerra in Ucraina è la radicalizzazione delle posizioni, la loro rappresentazione fatalmente caricaturale (bellicisti con elmetto vs pacifisti irenici).

Per ampliare l’orizzonte della discussione credo sia utile ripassare alcune tappe fondamentali del pensiero occidentale sulla guerra. Prendiamo Simone Weil, straordinaria mistica razionalista del secolo scorso, filosofa “dilettante” vicina al sindacalismo rivoluzionario, capace di vivere ogni giorno – con una coerenza personale che sfiora la santità – i principi in cui credeva.

Pacifista integrale e però quando scoppia la guerra impegnata nella Resistenza armata. Provo a ricostruire brevemente il suo percorso, che dal pacifismo dei primi anni ‘30 perviene all’adesione alla Resistenza francese (si veda S.Weil, Scritti sulla guerra, Pratiche 1998, con una bella e utile introduzione di Donatella Zazzi).

Nel 1931, quando comincia a insegnare nei licei, considera la guerra un male assoluto, anche perché colpisce più di tutti gli operai, gli oppressi, i lavoratori sfruttati (nel 1928 aveva elaborato un progetto di servizio civile che doveva sostituire quello di leva), e perché comporta una militarizzazione dello stato e della vita civile, il rischio di una involuzione totalitaria (dunque critica anche l’idea marxista di guerra rivoluzionaria).

Nel ‘36, con lo scoppio della Guerra Civile spagnola, il suo pacifismo ha una prima incrinatura perché si arruola nei ranghi come “soldato”, in un gruppo che affianca la colonna anarchica di Buenaventura Durruti.

Va a finire in cucina e si ustiona con l’olio bollente Poi però non tornerà più al fronte perché la Guerra Civile le appare solo una guerra tra potenze per l’egemonia, ma soprattutto scrive a Bernaos di aver capito che “quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo si uccide”.

E aggiunge: “non ho mai visto nessuno , nemmeno in confidenza, esprimere repulsione o solo disapprovazione per il sangue versato”. Un’analisi che rende il suo pacifismo ancora più radicale e che segna una differenza “antropologica” di fondo tra uomini e donne.

Nel 1937 scrive un saggio importante, “Non ricominciamo la guerra di Troia”, dove spiega come sia greci che troiani si fossero dimenticati delle ragioni del combattere. Si riavvicina ai gruppi pacifisti e anche di fronte all’Anschluss e agli accordi di Monaco ritiene che “una guerra in Europa sarebbe una sventura certa, in tutti i casi, per tutti, da tutti i punti di vista”.

Di qui la sua insistenza nel voler negoziare, fare concessioni anche apparentemente eccessive, temporeggiare, puntare su strategie che possano logorare nel lungo periodo la Germania nazista Infine nel giugno 1940 quando l’esercito tedesco invade la Francia costringendola a fuggire con i genitori avviene un mutamento di rotta.

Coglie negli ex sodali pacifisti una “inclinazione al tradimento”, e pensa di aver compiuto “una negligenza criminale nei confronti della patria”.

Scrive a De Gaulle, prima elabora un Progetto di formazione di infermiere di prima linea, che operano nel campo di battaglia, poi chiede di essere utilizzata in missioni operative, anche se non otterrà risposta (di tutto questo parla in saggi fondamentali come Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo, L’Iliade o il poema della forza, e nei Quaderni ).

Assegna un valore strategico all’azione di sabotaggio e alla propaganda. Considera come nemico principale l’idolatria, la sua natura totalitaria.

Idolatrici erano il fascismo e il comunismo, dove l’idolatria è il surrogato deformato della religiosità vera: si ama come Dio uno stato, una nazione, un partito, e ad essi si sacrificano la propria vita e quella degli altri…. Con l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia conclude che la guerra è un male necessario: nel mondo sublunare che abitiamo, sottoposto alla forza e alla necessità, non ci è sempre permesso di sottrarci al male! Inoltre osserva che se la Francia, in quel momento sottomessa dall’esercito tedesco, fosse liberata dagli americani o dai russi, resterebbe “in una condizione di servitù” degradante: il solo modo per evitarlo è “una grande azione che trascini il paese” e che cancelli ogni viltà passata “con una rinascita di coraggio e di fraternità combattente”.

Nei Quaderni annota lucidamente: “La non-violenza è buona solo se è efficace. In questi termini si pone la questione rivolta a Gandhi dal giovane a proposito della sorella. La risposta dovrebbe essere: usa la forza, a meno che tu non sia in grado di difenderla con altrettanta possibilità di successo senza violenza”.

Aggiunge che tutto questo “dipende anche dall’avversario”. E commentando la Bhagavad gita induista: “Arjuna è nel torto perché si lascia sommergere dalla pietà invece di pensare chiaramente il problema: posso non combattere?”. La consapevolezza tragica della dimensione storica non la abbandona mai: anche se la causa del vincitore o quella del vinto fosse giusta per lei “il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile.

Nel 1941 ragionando sul tempo, una necessità che incatena l’essere umano, scrive che questa necessità si riflette nel “potere che procura a coloro che sanno bruciare i campi ed uccidere gli uomini, cose rapide, nei confronti di coloro che sanno far maturare il grano e allevare i bambini, cose lente”.

Eppure la consapevolezza tragica non le impedisce di partecipare a quel male necessario che è la guerra contro Hitler. E ancora, in un passo che sembra liquidare il suo precedente pacifismo integrale: “Un male che non posso evitare di compiere, se non compiendone uno più grande, non sono io a compierlo, è la necessità”.

Non solo non possiamo sottrarci al male ma dovremmo assumerlo su di noi, anche umilmente, sapendo che in quel momento occorre comunque agire. Ora, tra noi continueremo a dividerci e a discutere se, ad esempio, l’invasione nazista della Cecoslovacchia sia equiparabile a quella russa dell’Ucraina, o se una pace ingiusta sia comunque meno dannosa di una guerra giusta, etc.

Però Weil ci invita a misurarci con il kairòs, con il momento opportuno, contingente, ineludibile, in cui anche i nostri principi più saldi possono modificarsi.

Filippo La Porta

Fonte:ilriformista.it

 

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